Professione forense

In materia di esercizio abusivo di una professione, nel caso in esame di avvocato, costituisce opinione dominante nella giurisprudenza di legittimità «il principio secondo il quale integra il reato di esercizio abusivo di una professione di cui all’art. 348 cod. pen., il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato. In senso conforme a tale orientamento si è, altresì, puntualizzato che non commette il reato di abusivo esercizio della professione di avvocato il soggetto che si limiti all’occasionale compimento di una attività stragiudiziale, non potendo una prestazione isolata essere sintomatica di un’attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato» (Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, Sentenza 13341/2024).

Dispositivo dell’art. 348 Codice Penale: Chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni con la multa da euro 10.000 a euro 50.000. La condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e, nel caso in cui il soggetto che ha commesso il reato eserciti regolarmente una professione o attività, la trasmissione della sentenza medesima al competente Ordine, albo o registro ai fini dell’applicazione dell’interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività regolarmente esercitata. Si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 15.000 a euro 75.000 nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo”.

Pubblicazione n. 22 del 16.04.2024

Registrazione di conversazioni

Premesso che le intercettazioni regolate dagli artt. 266 e ss. cod. proc. pen. «consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con l’intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato. Ne consegue che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi, non è riconducibile, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, ma costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 cod. proc. pen., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa; nel medesimo senso, si è chiarito che la trascrizione della conversazione intercorsa tra la vittima e l’autore di condotte estorsive ed usurarie, portata a conoscenza delle forze dell’ordine per iniziativa della stessa persona offesa mediante l’inoltro della chiamata in corso sull’utenza della polizia, che provveda immediatamente alla sua registrazione tramite l’applicazione call recorder, costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, utilizzabile in dibattimento quale prova documentale, ai sensi dell'art. 234 cod. proc. pen. Tali principi trovano applicazione nel caso in esame, in cui la conversazione si è tenuta in vivavoce» (Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, Sentenza 10079/2024).

Pubblicazione n. 21 del 14.04.2024

Sicurezza sul lavoro

In materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, ovvero in tema di disposizioni sulla prevenzione degli infortuni e dunque responsabilità per negligenza, imprudenza, imperizia e colpa specifica ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., «è pacifico che non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente. Non è configurabile, in altri termini, la responsabilità ovvero la corresponsabilità del lavoratore per l’infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l’instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli. Ciò perché il datore di lavoro quale responsabile della sicurezza gravato non solo dell’obbligo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente la loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all’art. 2087 cod civ., egli è costituito garante dell’incolumità fisica dei prestatori di lavoro. E, qualora sussista la possibilità di ricorrere a plurime misure di prevenzione di eventi dannosi, il datore di lavoro è tenuto ad adottare il sistema antinfortunistico sul cui utilizzo incida meno la scelta discrezionale del lavoratore, al fine di garantire il maggior livello di sicurezza possibile» (Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, Sentenza 9177/2024).

Pubblicazione n. 20 del 10.04.2024

Reddito di cittadinanza

Con la sentenza qui in esame, decisa il 22 febbraio 2024, depositata il 29 marzo 2024 ed anticipata dal Comunicato stampa pari data, la Corte costituzionale – decidendo sulla legittimità costituzionale del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito con modificazioni nella legge 28 marzo 2019, n. 26, in riferimento agli artt. 2, 3, 25 e 27 della Costituzione, sollevate dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Foggia – ha chiarito che il cosiddetto “reddito di cittadinanza” «risulta strutturato in modo da non poter venire in aiuto alle persone che, in forza delle vincite lorde da gioco conseguite nel periodo precedente alla richiesta, superino le soglie reddituali di accesso, anche se, a causa delle perdite subite, sono rimaste comunque povere. Da ciò consegue, non irragionevolmente, la pena prevista dall’indubbiato art. 7, comma 1, di chi, ai fini dell’ammissione al beneficio, non dichiari le vincite lorde ottenute rilevanti per la determinazione dell’ISEE». Diversamente – premesso che sarebbe illogico se il reddito di cittadinanza possa aiutare chi si “rovina” con il gioco –, non solo si rischierebbe «di alimentare la ludopatia in chi ancora ne soffre, ma anche di creare, in ogni caso, una rete di salvataggio che si risolverebbe in un deresponsabilizzante incentivo al gioco d’azzardo, i cui rischi risulterebbero comunque coperti dal beneficio statale» del reddito di cittadinanza. Infatti, detta finalità «non può certo rientrare tra i compiti che l’art. 3, secondo comma, Cost. assegna alla Repubblica, perché, da un lato, la dipendenza da gioco d’azzardo (cosiddetto gioco d’azzardo patologico o ludopatia) costituisce un fenomeno da tempo riconosciuto come vero e proprio disturbo del comportamento, assimilabile, per certi versi, alla tossicodipendenza e all’alcoolismo” (...), con riflessi, talvolta gravi, sulle capacità intellettive, di lavoro e di relazione di chi ne è affetto, e con ricadute negative altrettanto rilevanti sulle economie personali e familiari (...). Dall’altro, perché frequentemente tale patologia risulta incoraggiata dall’illusione di un miglioramento sociale legato alla fortuna, che ha spesso come conseguenza l’attrazione verso il gioco d’azzardo di quelle componenti più deboli e meno facoltose della società che sono proprio i principali soggetti al centro dell’attenzione dell’art. 3, secondo comma, Cost.». Oltre tutto, sono molte le misure preventive e dissuasive stabilite dalle norme vigenti in materia, tra tutte il divieto di «qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e i canali informatici, digitali e telematici, compresi i social media» (Corte costituzionale, Sentenza 54/2024 - Presidente: Barbera; Redattore: Antonini).

Pubblicazione n. 19 del 02.04.2024