Una recente pronuncia della cassazione mi ha offerto lo spunto per tornare sull’argomento in oggetto. Infatti, nel caso specifico di lesioni gravi cagionate volontariamente alla vittima, si è sottolineato come non sia emerso il nesso tra l’azione delittuosa ed il disturbo bipolare cui era affetto l’imputato (Cass. Pen. Sent. 12855/2025); per cui, aggiungo, il fatto che si sia di fronte un soggetto con una condizione di variabilità dell’umore dovuta ad un disturbo bipolare non significa che detta condizione crei automatismo con il riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, e dunque di non imputabilità e punibilità del medesimo. Sicché, qui richiamando giurisprudenza pregressa, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità” possono rientrare nel concetto di “infermità”, ma a condizione che siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente; perciò a condizione che sussista un nesso con la specifica condotta criminosa per effetto del quale il fatto reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue, quindi, che ai fini dell’imputabilità nessun rilievo deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”.
Inoltre, ai fini del riconoscimento della sussistenza del vizio totale o parziale di mente acquistano rilievo solo quei disturbi della personalità di tale consistenza e gravità da determinare, in concreto, una situazione psichica che impedisca al soggetto di gestire le proprie azioni e faccia sì che non ne percepisca il disvalore. Per cui, sul punto rileva il distinguo tra coscienza e volontà dell’azione e motivi a delinquere, come il dolo del reato di maltrattamenti che si ricava dalla continuità e reiterazione delle azioni aggressive e minacciose in danno delle vittime, senza che sia necessario per la sua sussistenza una programmazione anticipata delle condotte delittuose. Tant’è che l’abitualità della condotta è profilo oggettivo della stessa ma non richiede necessariamente una iniziale preordinazione dolosa unitaria, essendo sufficiente la rappresentazione della preesistenza delle attività vessatorie al momento della reiterazione. Pertanto, nel reato abituale il dolo non richiede – a differenza che nel reato continuato – la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; bensì è sufficiente la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività delittuosa già posta in essere in precedenza idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice (Cass. Pen. Sent. 13959/2020).
Pubblicazione 19/2025