Università e diritti genitoriali

Nel caso in esame, l’interessato si vedeva negare dall’Università frequentata dalla figlia l’istanza di accesso agli atti, ai sensi degli artt. 22 e ss. Legge 241/1990, riguardo la seguente documentazione: a) l’effettiva iscrizione della figlia all’Università; b) il dettaglio degli esami sostenuti, con le relative date e votazioni; c) l’eventuale conseguimento della laurea e la data del titolo, se conseguito.

Per cui l’interessato ha chiesto l’accertamento del proprio diritto di accesso alla suddetta documentazione, quindi concernente la situazione universitaria della figlia, seppur maggiorenne, al fine di verificare la legittimità della partecipazione alle spese di mantenimento della stessa.

Sul punto, l’amministrazione universitaria ha negato l’accesso agli atti richiesti richiamando il “Regolamento di Ateneo” secondo cui da un lato la documentazione richiesta è ostensibile solo previo consenso di parte controinteressata, naturalmente negato; dall’altro lato, come conseguenza diretta, che a tutela del diritto alla riservatezza (privacy) sono sottratti all’accesso i documenti relativi al curriculum studiorum nonché alla vita privata degli studenti.

Ebbene, non sono stati dello stesso avviso i giudici amministrativi, secondo i quali le norme in parola (Regolamento di Ateneo e legislative) «devono essere intrepretate nel senso di consentire l’accesso ai suddetti documenti, non solo quando questi siano utili per ragioni difensive, pendente un giudizio davanti a un giudice, ma anche quando l’istante deve valutare se adire o meno il giudice e quindi necessita dei documenti per curare al meglio i propri interessi decidendo, causa cognita, se adire la strada processuale. In questa prospettiva, il collegamento tra l’interesse giuridicamente rilevante del soggetto che chiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza deve essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse».

Per cui, «l’Università avrebbe dovuto ritenere sufficiente, ai fini della prevalenza sull’interesse alla riservatezza della figlia, l’interesse del padre, data l’età adulta della controinteressata (già trentunenne), a sapere se la figlia abbia proseguito il suo percorso di studi universitario, perché tale elemento, senza dubbio, astrattamente incide sulla permanenza dell’obbligo di mantenimento, essendo peraltro in questa sede irrilevante la questione della ricomprensione in tale obbligo del pagamento delle tasse universitarie» (TAR Toscana, Sezione Quarta, Sentenza 1212/2025).

Pubblicazione 22/2025

Steward negli stadi

La Suprema Corte di Cassazione, enunciando il principio secondo cui il ruolo degli steward negli stadi afferisce ad «un’attività non documentata, non intellettiva, che in sostanza si realizza attraverso un mero controllo materiale relativo alla disponibilità del titolo di accesso e della conformità della intestazione del titolo con il soggetto che lo possiede»; ha di fatto stabilito che non può essere loro riconosciuta la qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio in quanto, appunto, risultano meri addetti al controllo dei biglietti di accesso agli eventi sportivi.

Un’attività, proseguono i giudici di legittimità, «rispetto alla quale l’agente, che pure instaura una relazione diretta con il destinatario del servizio, non è in grado di adottare nessun atto conformativo del comportamento di questo, perché, come visto, egli non può che limitarsi, in caso di dissenso, a informare i pubblici ufficiali e, in particolare, le forze dell’ordine».

Infatti, il D.M. 8 agosto 2007, in tema di modalità di svolgimento del servizio, specifica, tra l’altro, che gli steward all’interno dell’impianto sportivo compiono attività di bonifica volta a verificare, prima dell’apertura al pubblico, la stabilità e l’ancoraggio delle strutture mobili, a garantire la rimozione di eventuali oggetti illeciti o proibiti, ad adottare ogni iniziativa utile ad evitare che sia creato ostacolo od intralcio all’accessibilità delle vie di fuga, a verificare la perfetta funzionalità degli impianti antincendio, delle uscite di sicurezza e del sistema di videosorveglianza e, quindi, di presidio dei varchi di accesso all’area riservata dell’impianto, di accertamento della conformità dell’intestazione del titolo di accesso allo stadio alla persona che lo possiede richiedendo l’esibizione di un valido documento di identità (negando l’ingresso in caso di difformità o se sprovvista), di verifica e controllo volto ad evitare l’introduzione di oggetti, strumenti e materiali illeciti atti ad offendere o comunque pericolosi per la pubblica incolumità.

Ciò premesso, quindi, «mentre la sussistenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio è stata riconosciuta nei riguardi di quei soggetti che, operando tanto nell’ambito di enti pubblici quanto di enti di diritto privato, siano risultati titolari di funzioni di rilevanza pubblicistica caratterizzate dall’esercizio del potere di adottare in autonomia provvedimenti conformativi dei comportamenti dei destinatari del servizio, con i quali l’agente instaura una relazione diretta, quella qualifica è stata invece negata in relazione alla posizione di quei soggetti che, privi di mansioni propriamente intellettive, nel contesto di quelle strutture siano chiamati a compiere generiche attività materiali in esecuzione di ordini di servizio ovvero di prescrizioni impartire dai superiori gerarchici» (Cass. Sesta Sez. Pen. Sent. 23333/2025).

Pubblicazione 21/2025

Diffamazione online

In materia di violazione dell’art. 595, primo e terzo comma del codice penale (offesa recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), quando la condotta sia realizzata attraverso social network, ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, nella valutazione del requisito della continenza si deve tener conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato, ma anche della «eccentricità delle modalità di esercizio della critica, restando fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali che devono ritenersi superati quando la persona offesa sia esposta al pubblico disprezzo, ad esempio con commenti ad hominem umilianti e ingiustificatamente aggressivi». Per cui, frasi offensive, per quanto di cattivo gusto, non possono propriamente dirsi dirette ad aggredire gratuitamente la sfera morale altrui oppure esprimere un disprezzo personale, essendo invece (almeno nel caso in esame) rivolte a rimarcare quel che, a giudizio dell’imputata, sarebbe un’incapacità della persona offesa di attirare il pubblico in occasione di eventi culturali (sono convinta che [tizio] non riuscirebbe a riempire il cesso di casa sua). Né, quindi, l’espressione incriminata può dirsi gravemente infamante al punto da superare il limite della continenza verbale.

Invero, «in tema di diffamazione, il limite della continenza nel diritto di critica è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato», e dunque «la sussistenza dell’esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto di critica, a condizione che l’offesa non si traduca in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale del soggetto passivo ma sia contenuta (requisito della continenza) nell’ambito della tematica attinente al fatto dal quale la critica ha tratto spunto, fermo restando che, entro tali limiti, la critica, siccome espressione di valutazioni puramente soggettive dell’agente, può anche essere pretestuosa ed ingiustificata, oltre che caratterizzata da forte asprezza». Perciò, sempre nel caso che qui ci occupa, potrà dirsi che con la frase in questione l’imputata abbia espresso una critica con toni volgari ma non diffamatorie quindi non tali da travalicare i limiti della continenza e da travolgere la sussistenza dell’invocata scriminante. Per tutte e tali ragioni, il Collegio annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato e per l’effetto revoca le statuizioni civili (Cass. Quinta Sez. Pen. Sent. 22341/2025).

Pubblicazione 20/2025