Uso legittimo del GPS

Con riguardo alla legittima utilizzazione dei risultati dell’attività di pedinamento elettronico mediante apparato GPS installato sull’autoveicolo, i giudici di legittimità hanno più volte ribadito il principio in punto di diritto secondo cui «la localizzazione degli spostamenti tramite sistema di rilevamento satellitare GPS (c.d. pedinamento elettronico) è mezzo di ricerca della prova atipico non implicante un accumulo massivo di dati sensibili da parte del gestore del servizio, sicché le relative risultanze sono utilizzabili senza necessità di autorizzazione da parte dell’Autorità Giudiziaria, non trovando applicazione per analogia la disciplina di cui all’art. 132, comma 3, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e successive modifiche, in tema di tabulati, e neppure i principi affermati dalla sentenza della CGUE del 05/04/2022, C.140/2020, relativa alla compatibilità di “data retention” con le Direttive 2002/58/CE e 2009/136/CE, sul trattamento dei dati personali e la tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni».

Al suddetto concetto si aggiunge «che il pedinamento attraverso il sistema di rilevamento satellitare è uno strumento investigativo ricompreso tra i compiti istituzionali di cui la polizia giudiziaria fa legittimo uso e, quindi, pienamente utilizzabile nel processo penale senza necessità di autorizzazione preventiva da parte dell’Autorità Giudiziaria, in quanto non si risolve in una interferenza con il diritto alla riservatezza delle comunicazioni, né in una lesione dell’inviolabilità del domicilio […], ciò in quanto il sistema di localizzazione satellitare registra i movimenti dei mezzi allo stesso modo in cui sarebbero registrati dal personale di polizia giudiziaria nel corso del pedinamento e trasferiti in annotazioni di servizio».

Tuttavia, di verso contrario, ma invano, sono state le argomentazioni difensive, secondo cui «il tracciamento fisico è una intercettazione “in diretta” dei movimenti, situazione che rende il pedinamento elettronico un mezzo investigativo assai più invasivo della attività di positioning connessa al tracciamento di un cellulare», e che «i dati di geolocalizzazione potrebbero essere acquisiti solo previa autorizzazione del Giudice».

Ebbene, chiosa la Corte di legittimità, tutti i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, quanto a ciascuno di essi, «valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dai ricorsi (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186) al versamento della somma ritenuta equa di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende» (Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, Sentenza 27513/2025).

Pubblicazione 27/2025

Autoservizi pubblici

Il caso oggi in esame riguarda il provvedimento con cui la Commissione provinciale della Provincia di Perugia per la formazione e la conservazione dei ruoli dei conducenti di veicoli adibiti ad autoservizi pubblici non di linea, ha respinto la domanda proposta dall’interessato finalizzata a sostenere l’esame per l’iscrizione nel ruolo dei conducenti dei suddetti veicoli.

Il rigetto fondava sul presupposto che il medesimo istante era privo del «requisito della residenza in uno dei Comuni della Regione dell’Umbria», così come previsto dalla normativa regionale e dal Regolamento provinciale in materia.

Ebbene, l’interessato, presentato ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria, ha denunciato l’illegittimità del gravato diniego e della previsione del Regolamento provinciale derivata dalla illegittimità della previsione legislativa regionale laddove richiede, appunto, il requisito della residenza in uno dei Comuni della Regione Umbria, non previsto invece dalla legge quadro nazionale e dunque «in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. e con la normativa europea, nello specifico con l’art. 49 TFUE e l’art. 14 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE».

Sicché, nelle more dell’istruttoria, la Corte costituzionale (Sentenza 183/2024) si pronunciava proprio sul punto qui in narrativa, ovvero dichiarava «l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lett. i), della legge della Regione Umbria 14 giugno 1994, n. 17» giacché, tra l’altro, «l’addizione del requisito della residenza in uno dei comuni dell’Umbria […] rischia di escludere dal suddetto ruolo anche aspiranti che, pur non in possesso di tale requisito, presentino caratteristiche di professionalità, onorabilità e conoscenza del territorio magari in grado più elevato rispetto ai residenti».

Per tali motivi, alla luce della richiamata pronuncia della Corte costituzionale, hanno trovato accoglimento le censure del ricorrente e dunque del «gravato provvedimento di non ammissione all’esame per l’iscrizione nel ruolo dei conducenti di veicoli adibiti ad autoservizi pubblici non di linea, che pone l’assenza del richiamato requisito della residenza in uno dei Comuni della Regione a fondamento del diniego», con condanna dell’Ente pubblico anche al pagamento delle spese del giudizio (TAR Umbria, Sezione Prima, Sentenza 663/2025).

Pubblicazione 26/2025

Detenzione domiciliare speciale

Con ordinanza del Tribunale di sorveglianza veniva rigettata l’istanza di detenzione domiciliare avanzata nell’interesse del condannato, secondo il quale avrebbe dovuto esservi ammesso per consentirgli di «ricoprire il ruolo di caregiver, esattamente come è consentito alla figura materna, essendosi evidenziata sempre di più l’equivalenza fra i ruoli parentali», stante, appunto, la necessità di accudire la figlia minorenne affetta da disabilità ed in ragione dell’impossibilità della madre di provvedere a tale compito; cosa che, invece, a seguito degli esperiti accertamenti, era emerso, contrariamente alle ragioni assunte dall’interessato, che la madre della minorenne si «dedicava esclusivamente alla cura dei figli e pertanto non sussistevano i presupposti per detta concessione».

Inoltre, lamentava la difesa del condannato, l’art. 47-quinquies ordin. penit. deve essere letto «quale istituto teso alla tutela della prole e anche all’assolvimento di un ruolo di cura paritario da parte dei genitori, al fine di evitare che lo stato detentivo di uno dei due possa riverberare negativamente sullo sviluppo psico fisico del figlio minore portatore di handicap».

Ebbene, non dello stesso avviso sono stati i giudici di legittimità, infatti, dichiarando il ricorso infondato, hanno puntualizzato che l’art. 47-quinquies comma 7 ordin. penit., stabilisce che “la detenzione domiciliare speciale può essere concessa, alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre”; e che, pertanto, la situazione impediente è da intendersi come «l’impossibilità per il genitore non detenuto di garantire una presenza in famiglia che assicuri la continuità affettiva, avendo riguardo non solo al soggetto chiamato a prestare assistenza, ma anche, e soprattutto, alla situazione del figlio, in considerazione del rischio in concreto derivante per quest’ultimo dal deficit assistenziale, sotto il profilo della irreversibile compromissione del processo evolutivo-educativo».

Su tali presupposti, il Tribunale di sorveglianza ha quindi correttamente escluso che nel caso in esame l’istante versasse nelle condizioni richieste dalla norma in parola, tant’è che dall’integrazione probatoria richiesta di ufficio si è accertato sia uno stato di handicap lieve della figlia della coppia, sia l’impegno continuativo ed esclusivo della madre all’accudimento della stessa, rilevando perciò «l’insussistenza delle condizioni richieste per la concessione del beneficio invocato», rigettando così l’istanza (Cassazione, Prima Sezione Penale, Sentenza 29204/2025).

Pubblicazione 25/2025