Ricovero in REMS

Il caso oggi trattato richiama il disposto ex art. 219, co. 1, cod. pen.: “Il condannato, per delitto non colposo [...], a una pena diminuita per cagione di infermità psichica [...], o di cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per cagione di sordomutismo, è ricoverato in una casa di cura e di custodia per un tempo non inferiore a un anno, quando la pena stabilita dalla legge non è inferiore nel minimo a cinque anni di reclusione”; nonché il comma 3: “Se si tratta di un altro reato, per il quale la legge stabilisce la pena detentiva, e risulta che il condannato è persona socialmente pericolosa, il ricovero in una casa di cura e di custodia è ordinato per un tempo non inferiore a sei mesi; tuttavia il giudice può sostituire alla misura del ricovero quella della libertà vigilata [...]. Tale sostituzione non ha luogo, qualora si tratti di condannati a pena diminuita per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti”.

Ebbene, la difesa dell’interessato proponeva ricorso per cassazione giacché condannato alla pena di giustizia per il reato di danneggiamento aggravato, adducendo unico motivo di doglianza, con riferimento proprio all’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza).

Assumeva, la difesa, che la norma qui in esame «consentiva l’applicazione della misura di sicurezza dell’assegnazione a una casa di cura e di custodia nel caso di infermità parziale, ma solo nell’ipotesi di condanna a una pena non inferiore a un anno, quando la pena stabilita dalla legge non era inferiore nel minimo a cinque anni, laddove nel caso di specie la pena in concreto inflitta era di mesi quattro di reclusione».

Il ricorso è stato dichiarato infondato.

Infatti, «l’imputato è stato ritenuto socialmente pericoloso dal perito nominato nel corso del processo, sicché in tal caso l’applicazione della detta misura di sicurezza vede quale presupposto esclusivamente la condanna per un reato per il quale la legge stabilisce la pena detentiva, presupposto nella specie sussistente, essendo stato [...] condannato per il reato di danneggiamento aggravato», seppur con riduzione di pena in appello rispetto a quella inflitta in primo grado.

Pertanto, alla luce di tutti i motivi, il ricorso è stato rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali (Cass. II Sez. Pen. Sent. 33804/2025).

Pubblicazione 34/2025

Pericolosità sociale

Il caso qui proposto riguarda la revoca del permesso di soggiorno, a suo tempo ottenuto dal ricorrente, cittadino extracomunitario, disposta dal Questore per emersione dal lavoro irregolare.

Ebbene, la revoca è motivata in base alla pericolosità sociale dello straniero a seguito sia di una denuncia per guida in stato di ebbrezza, sia di un arresto per stupefacenti con traduzione in carcere, poi convertito in detenzione domiciliare presso l’abitazione di alcuni parenti.

Sicché, nel provvedimento di revoca del permesso di soggiorno si sottolinea la propensione a delinquere del soggetto e dunque la legittimità della revoca stessa in funzione di prevenzione anticipata, secondo cui «la valutazione prognostica della pericolosità sociale dell’interessato può fondarsi, legittimamente, su fatti non ancora accertati penalmente ed inerenti un reato c.d. ostativo al soggiorno sul Territorio Nazionale, che desti, pertanto, particolare allarme sociale, allorquando la notizia di reato sia sufficientemente circostanziata, così da non obliterare la presunzione di non colpevolezza», giungendo ad una valutazione di pericolosità del ricorrente per l’ordine e la sicurezza pubblica “a fronte della presenza in Italia dei soli zii naturalizzati italiani”, sottolineando peraltro che lo zio ha precedenti di polizia.

Di diverso avviso sono state le (vane) argomentazioni difensive, secondo le quali sarebbe stato «omesso di valutare la complessiva situazione del ricorrente limitandosi ad un giudizio basato su quanto riportato nell’ordinanza del GIP», non trovandosi traccia «dell’incensuratezza del ricorrente, né della sua giovanissima età, né tanto meno dell’attività lavorativa svolta».

Tuttavia, in applicazione della costante giurisprudenza, «il diniego di rilascio del titolo di soggiorno può fondarsi non solo su precedenti condanne penali per talune tipologie di reato particolarmente allarmanti [...], ma prevede una sorta di clausola generale che consente alla Questura di valutare qualunque condotta [...] che denoti la pericolosità sociale del cittadino straniero per l’ordine pubblico o per la sicurezza dello Stato», per cui ai fini della revoca del titolo di soggiorno non è necessario che vi sia stata condanna, ma sono «sufficienti elementi di carattere indiziario relativi alla condotta tenuta durante il periodo di presenza in Italia».

Per tutti i motivi, il ricorso è stato respinto con condanna del ricorrente al pagamento delle spese oltre ad oneri ed accessori di legge (TAR Umbria, Sent. 743/2025).

Pubblicazione 33/2025

Diffamazione online

Il caso in esame torna a trattare del reato di diffamazione a mezzo social, ovvero per un post scritto sul profilo facebook pubblico dell’imputato, soffermandosi sul trattamento sanzionatorio, nel senso, secondo la tesi difensiva, della «illogicità della scelta sanzionatoria del Tribunale, che ha optato per una pena detentiva da infliggere al ricorrente, piuttosto che, come possibile in virtù dell’alternatività dell’editto di cui all'art. 595 cod. pen., per una pena soltanto pecuniaria».

Sicché, citando le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di legittimità, «il ricorso alla pena detentiva come risposta sanzionatoria al delitto di diffamazione, a mezzo stampa o non, sia consentito soltanto ove ricorrano circostanze eccezionali», per cui sulla base dell’interpretazione «convenzionalmente e costituzionalmente orientata della norma, invero, l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il delitto di diffamazione commesso, anche al di fuori di attività giornalistica, mediante mezzi comunicativi di rapida e duratura amplificazione (nella specie via Internet), deve essere connessa alla grave lesione di diritti fondamentali, come nel caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza».

Pertanto, dove non trovi «motivata la situazione eccezionale connessa alla grave lesione dei diritti fondamentali che l’ordinamento pone in bilanciamento con il diritto alla libera manifestazione del pensiero ex art. 21 Costituzione, la determinazione della pena come detentiva non è costituzionalmente giustificata, secondo un’ispirazione ermeneutica che proviene dalle affermazioni anche della giurisprudenza del giudice delle leggi» (cfr. Corte Cost. Sent. 150/2021). Infatti, secondo un’ispirazione interpretativa della giurisprudenza del giudice delle leggi, il reato di diffamazione si pone «al centro di un delicato e difficile equilibrio tra il diritto alla reputazione personale e il fondamentale diritto alla libertà di manifestazione del pensiero», ciò anche in considerazione della giurisprudenza della Corte EDU «elaborata con precipuo riferimento alla proporzione della pena detentiva nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica giornalistica, per l’effetto dissuasivo che può determinare sulla libertà di espressione della stampa in generale, considerato il watch-dog della democrazia».

Con ciò, la giurisprudenza UE attribuisce rilievo «al rischio di effetto dissuasivo rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero critico anche in relazione all’esercizio del diritto di critica non connesso con la libertà di stampa […] che, sotto il profilo della natura e della severità della sanzione che fa da contrappeso alla condotta di critica diffamatoria, si traduce in un monito a limitare la necessità della pena detentiva ai soli casi eccezionali» (Cass. Sez. V Pen. Sent. 29840/25).

Pubblicazione 32/2025